Impara a suonare qualcosa: è importantissimo!

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Strimpello strumenti musicali da sempre, sono sempre stato curioso e ho sempre assecondato la tentazione di toccarli, gli strumenti, per tirarne fuori qualcosa.
Mi piace entrare in contatto con con le cose e mi piace andarmi a scovare una reazione e costruire uno scambio.

Ho avuto la fortuna di crescere in una casa in cui ci sono sempre stati strumenti musicali in giro. Ho potuto pasticciare ogni volta che ho voluto, con ciascuno di loro. Mi ricordo chiaramente, anche se con una riga sottile di nostalgia, che tra tutti i modi di giocare che potevo scegliere questo è stato sicuramente tra i più appaganti, sin da quando ero molto piccolo. Lo sarebbe sicuramente anche oggi.

Mi piaceva ascoltare, adoravo sentire anche solo il singolo suono delle cose che toccavo, semplicemente per come usciva dagli strumenti, anche senza che diventasse effettivamente musica – del resto per un sacco di tempo non sarei stato capace di suonare sul serio della musica, si trattava più che altro di suoni organizzati al meglio, secondo il mio gusto.

La sensazione che ho sempre avuto mentre suonavo era che non risuonasse solo qualcos’altro, ma quasi qualcun altro, una sorta di spirito. E ogni strumento, ogni spirito, aveva un suo modo di rispondere.

La chitarra per esempio andava tenuta in braccio, come un fratellino piccolo, e, forse anche per questo motivo, le vibrazioni che mi restituiva mi sembravano davvero avvolgenti. Come toccavo una corda il suono si gonfiava subito nell’aria e mi circondava, morbido e caldo, scoppiando via dalle dita in una piccola esplosione controllata.
Poi lentamente, con garbo, il suono diventava silenzio.

Era una famiglia complessa, quella delle “cose” della chitarra, ogni corda aveva un suo carattere, poi c’era il legno del corpo e i tasselli interni in corrispondenza delle incollature, il ponte, le chiavi, tutto a portata di mano e ogni cosa aveva un suo suono, un suo carattere.
Tutta questa varietà era golosa come la vetrina di un pasticcere, anche nelle sue deviazioni più schizofreniche – per esempio quei suonini che si possono ottenere strofinando con il plettro i piccoli segmenti finali delle corde, poco prima che vadano a scomparire nel corpo del legno o ad arrotolarsi attorno alle chiavi.

In più nel buco della chitarra ci potevi anche parlare, bastava avvicinare la bocca alle corde e muggire verso la Grotta per sentire il suono spaventoso e profondo dell’ignoto che ti rispondeva. Poi ci potevi lasciar cadere dentro il plettro o un altro oggetto piccolo e iniziare a scuoterla, così il plettro cominciava a rimbalzarci dentro schizzando da tutte le parti. Ogni colpo sulla cassa era un minuscolo calcetto legnoso e, mentre continuavi a scuotere, ascoltavi il balletto isterico dell’insetto in trappola, meticolosamente ingigantito dalla piccola eco sorda che veniva da là dentro.

Arrivare invece a produrre tutti quelle note così diverse l’una dall’altra, spostando con precisione le dita sui tasti del manico, era davvero complicatissimo e allora la chitarra era diventato in poco tempo lo strumento degli effetti sonori per le storie da raccontare. La si prendeva quando mettevamo in piedi lo spettacolo delle marionette, la usavamo come orchestra di rumori per la colonna sonora e per i suoni dell’ambiente.
Si potevano usare tutte le corde, a piacere, e tutti i suoni percussivi che si era in grado tirare fuori, colpendo il corpo della chitarra, o strofinando il plettro qua e là.

Il pianoforte invece era più educato e formale. Intanto mi ci dovevo sedere vicino con uno sgabello rettangolare tutto suo. Era uno sgabello austero, ma sufficientemente comodo, che io adoravo regolare in altezza standoci rigorosamente seduto sopra, anche le volte in cui l’altezza era già quella giusta. La regolazione aveva qualcosa di affascinante che derivava dall’aspetto post rivoluzione industriale della meccanica della regolazione che stava sotto la seduta, ma anche dal fatto che, mentre lo facevo, mi sollevavo veramente in tempo reale dal pavimento.
La cosa si poteva fare girando due grossi pomelli verticali ai lati della seduta, che ti facevano scendere o salire.
Lui, il pianoforte, mi parlava restando dritto difronte a me, senza spandersi attorno come la chitarra, era composto ed educato. Era anche più metodico e uniforme nel parlare, i suoni erano già note, in più regolavo io la durata, semplicemente alzando il dito dal tasto o alzando il piede dal pedale del sustain quando volevo che il suono finisse. Le note uscivano perfette e sempre uguali, anche schiacciando più tasti assieme.

I tasti del pianoforte erano lisci e scivolosi al punto giusto, sotto le dita, e il loro profilo aveva un segreto che conoscevo solo io: sotto l’avorio e l’ebano i tasti erano fatti di legno! Dopo averne premuto uno spesso mi ci avvicinavo con il naso per sentire a piene narici il profumo di quel ricordo di bosco che il legno di abete sprigionava, un profumo intenso che aveva un che di fiabesco.
Sedersi al pianoforte significava lasciarsi sollevare dal tempo e fluttuare in una bolla fatta sensazioni e di suoni essenziali, compatti, e delicatamente perfetti.

Più tardi scoprii che quei suoni si potevano rimescolare sommandoli uno con l’altro, oppure si potevano mettere in fila uno dopo l’altro, ma anche entrambe le cose, e ci si poteva creare qualcosa che mi piaceva ancora di più dei suoni e basta.

Fu un’altra scoperta entusiasmante: la musica potevo anche inventarla io!

Nel tempo la cosa si è ingigantita sempre più e io ho continuato a subire una pesantissima ma piacevolissima sudditanza nei confronti della musica.
E’ probabile che questo tipo di sensibilità abbia a che fare con il mio DNA, in qualche modo: non posso non avere reazioni alla musica e ai suoni in generale, è una specie di allergia che mi provoca reazioni immediate e per la quale non esiste antidoto.

Oggi posso serenamente affermare che di fatto non so suonare ne il pianoforte ne la chitarra, tuttavia. E’ corretto dire che se ci butto le mani sopra, su questi strumenti, qualcosa di musicale alla fine comunque viene fuori.
Ad anni di distanza dalle mie prime esplorazioni ho messo sotto il sedere parecchi libri di teoria musicale che, quanto meno, mi hanno aiutato a capire le regole del gioco, un gioco che non ho mai imparato a praticare con sufficiente proprietà, ma dentro il quale ho costruito, con calma, alcune cose musicali che tutto sommato non mi dispiaciono affatto.

Ognuno dei due strumenti mi è servito per cercare qualcosa ed è sempre stata una ricerca sublime, la mia, perso nei fluidi eterei del suono, anche se di fatto non saprei dire cosa stessi cercando, ne se alla fine l’abbia mai trovato. Ma questo non conta.

Suonare significa riprodurre se stessi attraverso un oggetto, significa comunicare ed è utile per ascoltarsi e riflettere, un po’ come registrare la propria voce, proprio perché anche quella è voce, è modo, è carattere.
Di certo non si tratta di essere bravi, la bravura non centra niente. Si tratta semplicemente di iniziare a giocare e toccare e ascoltare e lasciarsi andare e poi reagire.

Rappresentare se stessi in una forma d’arte senza nessuna paura non è facile, ma è un esercizio molto efficace per uscire da se e rileggersi.
Si tratta di mettersi un po’ in gioco e secondo me all’inizio basta anche farlo in solitudine, anche senza estendere ad altri il giudizio della propria creatività. Basta anche strimpellare, buttarsi fuori su uno strumento, senza rete.

Suonare è comunque terapeutico e liberatorio, in ogni sua forma, senza arrivare a pensare addirittura di performare qualche cosa di compiuto per se stessi o per qualcun altro, basta anche solo procurarsi uno strumento e provare a tirarci fuori un qualche suono e poi vedere cosa succede. Può essere un nuovo inizio – di solito lo è sempre – ed io credo fortemente che sia una preziosissima opportunità, un frutto da non lasciare cadere per terra senza averlo mai neanche morso una volta.

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2 Commenti

    1. Grazie dell’apprezzamento, in questo contesto è stato decisamente facile da parte mia essere vivido… Sono contento che le cose siano venute fuori nella maniera giusta!

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