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La morte della creatività

tempo lettura: 7 minuti

Intrattenuti.

Immagini, colori, filmati, notizie, le opportunità più ghiotte, quelle imperdibili, un polpettone misto bio-junk, un’alluvione orgiastica di banner, di app e popup che ti accolgono, avvolgenti, e che poi ti fanno sedere per traghettarti comodamente verso le tue news, la tua serie televisiva, verso il tuo film, tutti risultati derivanti dall’analisi puntuale delle migliori statistiche digitali – proprio quello che stavi cercando! – una casa comoda e accogliente per ogni tuo stato d’animo, un torrente di scelte, sempre. Esattamente le TUE scelte.  

E’ l’Amicizia precisa del grande genio della lampada, un enorme genio con due manone blu, una ti ti prende per la collottola e ti solleva un palmo da terra portandoti a spasso, l’altra ti indica cosa guardare. Tu così non devi più neanche camminare, non cadi, non ti sporchi le scarpe, ma vivi trasportato da un luogo – virtuale – ad un altro, senza di fatto percorrere mai più nessuna strada.

Così non esci più (lock down a parte!), non vai a comprarti un film o un libro o un CD, perché hai già tutto sotto la punta del tuo indice. Prima queste cose si facevano spostandosi con i piedi e capitava di riflettere, nel mentre, di incontrare persone, di prendere freddo o caldo, di reagire ad un contesto e le tue sinapsi combinavano qualcosa, qualcosa che rendeva elastici i tuoi pensieri o quanto meno manteneva in vita i tuoi neuroni, stimolandoli con cose “reali”.

Da quando abbiamo cominciato noi stessi ad essere una moneta digitale – mi riferisco al concetto di “se è gratis il prodotto sei tu” e a tutto ciò che di simile gli ruota attorno – abbiamo acconsentito che la nostra vita si riempisse di Momenti di Intrattenimento.

C’è un confine però, un confine sempre più sottile e sfumato, qualcosa di ormai troppo difficile da smascherare: il confine tra quello che scegliamo veramente di vedere e quello che invece riceviamo passivamente. Forse non ci interessa neanche più identificarlo con chiarezza questo confine. Potrebbe essere che davvero per noi non sia più importante capire perché, proprio in quel determinato momento, ci mettiamo a guardare un film, ad aprire facebook o whatsapp o a giocare con una qualche app. Di cosa si tratta? Di disagio? Di noia? Di un tentativo di fuga dallo stress? Comunque sia si tratta di un automatismo che, sfruttando la nebbia della nostra inerzia mentale, ci trasporta dritti davanti alla nostra dose quotidiana.

Chi queste cose le ha studiate per bene parla di diminuzione della soglia di attenzione (Attention Span), di dipendenza (The Social Dilemma), di isolation devices (Digital Addiction) e di una serie di altre cose che in sostanza dicono che tutto ciò accade per la velocità del tempo in cui viviamo, certo, e per la sua immane densità, ma anche e soprattutto perché questi meccanismi di scelta indotta, più o meno consapevole, sono profondamente perseguiti e studiati e oramai funzionano alla perfezione, tanto più quando i destinatari non sono individui sufficientemente critici e vivaci al punto tale da poterne controllare l’effetto o addirittura di annullarlo.

Oggi ci domina casomai un’attitudine alla forma che purtroppo quasi mai è sostanza e che, invece di indurci ogni tanto ad uno stop giusto per fare – e farci – qualche domanda, ci fa abbassare la testa e correre, mettendoci in condizione solo di dare risposte.

In questo modo le cose che vanno perse sono fondamentalmente due: l’interazione con le altre persone e la possibilità di fare – nel senso di creare. Sono due tipologie di azioni profondamente basate sulla creatività, si tratta di una chance per fare un’efficacissima ginnastica mentale, e di spirito.

Credo che, per risvegliare il nostro torpore, la cosa più difficile da fare sia proprio comprendere l’importanza di queste due opportunità e scegliere quindi di voler essere creativi regolarmente, tanto più in un mondo come quello di oggi in cui i cambiamenti sono veloci e i salti da fare lungo la strada sempre più grandi. Sapersi adattare è fondamentale – me lo ha detto Darwin – e essere in grado di inventare quando ce n’è bisogno è spesso una feroce necessità.

La creatività però è un muscolo, un muscolo che non stiamo allenando più.

Ricordo che quando ero bambino riempivo spesso i pomeriggi in cui non si poteva uscire giocando con le cose che avevo a disposizione in casa. Facevo delle piccole zattere collegando assieme tappi di sughero con gli stuzzicadenti e poi naufragavo nell’oceano atlantico di un catino pieno d’acqua, oppure allestivo un piccolo parco giochi la cui protagonista era la candela-di-quando-andava-via-la-luce ed era tutto un incendio di fiammiferi e ferretti e dita, che poi si affumicavano sulla punta, fino a diventare nere, perché mi piaceva vedere per quanto tempo riuscissi a tenerle sulla fiamma, prima di bruciarmi sul serio. Ma potrei andare avanti (quasi) all’infinito a fare esempi di questo tipo.

Credo che quello che manca sia proprio questo spirito di… chiamiamola “ricerca“, il bisogno di fare qualcosa per vederlo da vicino e poterci mettere le mani dentro. Non abbiamo più l’attitudine al paciugo! Un’attitudine che ovviamente appartiene soprattutto ai bambini, ma anche a chi è riuscito a mantenere viva nel tempo questa curiosità spregiudicata e incosciente. Sarebbe profondamente terapeutico e liberatorio che questo sentimento diventasse una malattia endemica incurabile della quale tutta la popolazione è affetta e che si manifesta incontrollatamente in maniera periodica, diciamo almeno un paio di volte a settimana, su chiunque.

Mettendo da parte la difficoltà di lasciare in un angolo il gigantesco leviatano dei pensieri e delle preoccupazioni che ognuno di noi porta con se, credo che quello che ci inibisce concretamente sia anche la piena consapevolezza delle conseguenze. Oggi, se mai decidessi di mettermi a costruire una zattera con i tappi e gli stuzzicadenti per poi farla navigare in un catino pieno d’acqua da mettere al centro del tavolo della cucina, mi preoccuperei di non bagnare il tavolo, di non bagnarmi i vestiti, di sistemare subito tutto una volta finito, buttando via o riponendo con cura le cose usate, dando poi un colpo di straccio sul tavolo, magari con un paio di spruzzate di sgrassatore.

Poi il tempo dedicato alla micro-navigazione sarebbe tempo sottratto ad un’attività “seria” o a una priorità o al riposo, questo farebbe scendere rapidamente in graduatoria la micro-navigazione ricollocandola come “una cosa che in maniera praticamente istintiva scarterei a priori“, anche se di sicuro il fatto di provare a farla, invece, mi rilasserebbe, mi aiuterebbe a staccare mentalmente, mi impegnerebbe a fare qualcosa con le mani e a cercare soluzioni per le mie zattere.

Poi potrebbe addirittura venirmi voglia di applicare una vela alla zattera, di metterci sopra una ciurma, magari fatta con i gusci di noce, e poi a un certo punto mi verrebbe anche in mente un’idea strepitosa riguardo una cosa che non centra assolutamente niente con la zattera, magari una soluzione ad un problema che stavo cercando da mesi. Mettiamola così: sicuramente starei dando in pasto al mio cervello un cibo diverso dal solito, tutto cucinato da me, il che potrebbe aiutarmi a vedere alcune cose da un altro punto di vista.

Questo purtroppo non accade o accade davvero raramente, perché l’adulto con il dito indice alzato che si nasconde dentro di me tende ad avere il sopravvento, senza prendere minimamente in considerazione quello che di fresco e dirompente potrebbe invece regalarmi una sanissima dose di paciugo.

La creatività è un parente stretto della noia, il figlio legittimo del non sapere cosa fare, del sentire dentro lo stomaco la rabbia di non avere qualcosa di cui occuparsi, finendo sopraffatto dai pensieri. C’è bisogno di tenacia, soprattutto le prime volte. E’ necessario resistere alle tentazioni, evitando di andare dove ci vuole portare l’abitudine, bisogna saper controllare la mano che si aggrappa al telefonino per andarsi a scolare tutto d’un fiato l’unica vera Coca Cola nel deserto, un sapore che conosce ormai fin troppo bene, l’ancora di salvezza in grado di dare una pennellata di colore e narco-consuetudine al nostro malessere.

Riuscire a rompere questo meccanismo è complicatissimo: significa fermarsi e pensare. Ogni cosa intorno a noi preferirebbe che questo non accadesse, siamo il prodotto, la merce, sarebbe meglio che continuassimo a fruire piuttosto che invece creare qualcosa.

E’ proprio così che avviene il miracolo, però, accade nel momento esatto in cui si trova dentro di se la forza erculea e sovrannaturale di spegnere il flusso dei bit per restare semplicemente lì, da soli, in preda alla vertigine terrificante del vuoto.

Poche cose fanno così paura nella vita.

Quel fastidio lì, al limite della nausea, lo si può imparare a combattere e addomesticare, lo si può fare con qualche idea, qualsiasi idea. Lo si porta a giocare, gli si fa fare un disegno, lo si fa scrivere, gli si fa costruire qualcosa e lui dopo un po’ se ne sta quieto. E tu apri una porta verso un mondo difficilissimo da raggiungere, ma che, una volta imparato a frequentare con una certa consapevolezza e regolarità, ti aiuta a scoprire e coltivare una parte di te sorprendentemente taumaturgica. Provare per credere.

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6 Commenti

  1. In effetti almeno un’ora al giorno la passo sul telefono. E pensare che me lo hanno regalato… io non lo volevo nemmeno… se è comodo per me che comunque un po’ di chitarra o un libro ogni giorno li vedo, immagino cosa possa essere per i ragazzi. Mi chiedo se abbiano mai corso senza motivo, o se abbiano mai fatto un un’improvvisata a casa di un amico… comunque tra un po’ ci metteranno un chip nel cervello e saremo tutti felici. EVVIVA.

    1. Ahahaha!!… Speriamo di no Fuccio, la roba del microchip! Pensa che l’altro giorno mio figlio (12 anni), siccome un suo amico non rispondeva al cell gli è andato addirittura a citofonare a casa, alla vecchia! E, indovina un po?, ha funzionato: l’amico (sorpreso e felice) è uscito. Questo manca, sono d’accordissimo. E non solo ai ragazzi. Big hug.

  2. Nell’elenco delle cose che si potrebbero fare ne hai dimenticata una che per te, come per me, penso sia importante: suonare con gli amici…
    Ciao Marco, volare è importante!

    1. Ciao Enzo, grazie! Verissimo. Il fatto di suonare molto meno è sicuramente una delle cose che mi ha spinto a scrivere, ma sto organizzandomi per riprendere (stay tuned!)… 😉 Volare è FONDAMENTALE!! Un grande abbraccio.

  3. Amen… Sono uscito dai social da qualche settimana e, superata la crisi d’astinenza iniziale, ora mi sento molto più leggero… Provare per credere!

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