Approccio alla natura: istruzioni d’uso
L’Appennino Emiliano mi ha insegnato tanto.
Ho trascorso molte delle giornate più belle della mia infanzia a zonzo sulle colline e sui monti della provincia tra Reggio Emilia e Parma. Devo tanto a questi luoghi.
Sono terre contadine in cui il maestoso manto giallo e verde dei boschi e delle campagne è rigato solo dai torrenti e dalle strade e le grandi città sono una lontanissima luce fioca all’orizzonte che si lascia intuire solo dopo il tramonto.
La nostra casa si trova in uno dei tanti paesini di quelle valli, sapientemente distribuiti qua e là come piccole manciate di sassi ben ordinati dentro un presepe, antichi e tenaci, collegati tra loro da curve di asfalto di montagna, raggrinzito come la pelle dei nonni e pieno di sorprese come il figlio del mezzadro.
Qui è facile perdersi senza speranza nella natura, naufragando nei pensieri, sopraffatto da profumi e rumori disegnati con matita e acquerelli.
Io ho sempre cercato di approfittarne, più che ho potuto.
Ancora oggi, ogni volta che mi abbandono a questi luoghi, mi rendo conto che la distanza tra i ritmi della nostra vita e il respiro della natura è davvero abissale, al punto da rendere quasi ridicolo il nostro rincorrere le cose. Nel mio piccolo sono arrivato a un verdetto inappellabile: non c’è alcuna sincronia tra i nostri, di tempi, e quelli con cui questo pianeta respira. Toh!
Pensare ad a un cambiamento per me, per noi, è surreale, ma una cosa è certa: questa distanza mi rende famelico.
Sento di dovermi nutrire di qualcosa che non mangio mai, di dovermi avvicinare il più possibile a tutte queste cose, me ne devo cibare! Devo attingere a piene mani e mettere subito in tasca tutto ciò che mi è possibile arraffare: l’aria dei torrenti, la corteccia del legno, la pelle delle foglie, il profumo dell’erba, il fascino severo dei sassi, la calma ipnotica delle mucche, il dilatarsi del tempo, la curiosità negli sguardi, la tenerezza delle grida in lontananza. Rinnovo le mie fibre con molecole nuove, mi arrendendo con curiosità a tutte le cose, non posso farne a meno.
E’ come se avessi l’urgenza di aggrapparmi saldamente a qualcosa per rallentare, fino a fermarmi, fino a risalire di nuovo dentro un ventre calmo e silenzioso che ripulisce la mia anima dal nero.
Se ci riuscirò – ogni tanto capita – a quel punto sarò pronto a prendere un po’ di rincorsa per saltare di nuovo esattamente nel centro del tornado e rovinare tutto. Basteranno un paio di giorni, ma ne sarà valsa comunque la pena.
Non sono mai stato troppo sciamano, ma con un minimo di attenzione e silenzio credo sia possibile per chiunque sentire. Sono segnali minuscoli che, un minuto dopo l’altro, costruiscono e consolidano dentro di me una percezione netta, quella di trovarmi in un contesto che forse qualcosa da dire ce l’avrebbe davvero.
Ed è proprio grazie a questi piccoli elementi che si può fare sul serio un gran bel lavoro.
La ricetta è semplice e gli ingredienti sono pochi: un prato lontano dai rumori (ma va bene anche un bosco o la cima di una montagna), silenzio, pazienza, orecchio. Rimescolare il tutto lentamente, facendo attenzione a non formare grumi, poi lasciare riposare per almeno mezz’ora.
Se si riesce a non impazzire di quiete – una condizione dalla quale fuggiamo come i batteri dal cloro – e a mantenerla nel tempo, sarà tutta una scoperta tremenda dietro l’altra.
E’ fondamentale non avere con se nulla (se non magari una coperta) e concentrarsi sulle cose tutto intorno, per non venire risucchiati eccessivamente dal buco nero dei pensieri, il vero nemico di questa delicatissima operazione.
Ci sono due grandi macro-approcci: Occhi Aperti e Occhi Chiusi. All’inizio è meglio concentrarsi su uno dei due fino a che non lo si padroneggia con sufficiente confidenza.
I veri Maestri di Restare Dentro La Natura li alternano sapientemente con una disinvoltura disarmante, ma non bisogna voler strafare, il rischio di incasinarsi e tornare a pensare è altissimo. Meglio avanzare per gradi.
Cap 1 – Occhi Aperti.
Se si decide di sedersi (o sdraiarsi) e mettersi a guardare è fondamentale guardare in maniera maniacale ogni cosa. Svagata, ma maniacale. Un ossimoro necessario, i dettagli fanno decisamente la differenza.
Elencherò di seguito alcuni spunti corretti che possono fare da guida per i principianti:
- Seguire con lo sguardo (partendo dal basso o dall’alto, tutto sommato è indifferente) un solco a piacere della corteccia di un albero, fino ad arrivare alla chioma (o alle radici, se si parte dall’alto). E una cosa molto più difficile da fare di quanto non sembri, è pieno di distrazioni là fuori! Ma voglio essere più preciso: va identificato e circoscritto un piccolo ambito all’interno del quale invece è lecito distrarsi, serve una scala di distrazione ridotta e controllata, in sostanza. Seguire il solco infatti è un pretesto, un pattern, proprio perché invece è importantissimo divagare diligentemente nel momento in cui, per esempio, nel tragitto visivo ci si imbatte in un ragno o una cavalletta. A quel punto è importante farsi alcune domande esistenziali riguardo l’esserino del tipo si sarà perso?, come mai è lì da solo?, per poi arrivare alla conclusione che molto probabilmente è lì anche lui in maniera del tutto casuale e sta vivendosi la sua giornata come ha fatto ieri e come molto probabilmente farà domani. Poi bisogna respirare e guardare le nuvole (anche attraverso i rami dell’albero va benissimo).
- Seguire il cammino di una formica – anche se non trasporta una briciola o un pezzo di qualcosa che sembra cibo. Va distorta immediatamente la scena reimmaginando la formica come se si trovasse in viaggio su di un’autostrada americana, una di quelle con gli svincoli che si intrecciano in maniera caotica e improbabile (i fili d’erba). Qui i pensieri devono essere chissà che fatica che sta facendo!, come potrei fare ad aiutarla?, per poi mettere a fuoco una porzione più ampia di prato e ritrovarsi di fronte a un’agghiacciante scoperta: è pieno di formiche lì intorno e tutte si stanno spostando avanti e indietro, vagamente isteriche, su di un’arteria che collega sicuramente la loro tana a un’altro posto ancora. Poi si deve restare lì un po’ sconcertati a domandarsi quale possa essere l’altro posto e perché le formiche avrebbero avuto l’esigenza di collegarlo alla tana, poi annaspare nell’oblio della curiosità e cadere di nuovo all’indietro sdraiato sulla coperta a guardare il cielo, rassegnato all’ignoranza. Se a questo punto si presentano dei pensieri vanno cacciati via.
2- Occhi chiusi.
Qui la fatica è profonda, perché riuscire a rimanere presenti con gli occhi chiusi è molto più complicato. Si pensi a questa cosa come a una specie di master.
Per fortuna però basta poco per ritrovarsi completamente avvolti da questo vapore rarefatto di rumori, una volta chiusi gli occhi.
Quando si finisce lì dentro è l’immaginazione che guida e anche qui la sfida è non pensare.
Ci si deve concentrare sui suoni: un cane che abbaia in lontananza, il ronzio di un bombo (ape in sovrappeso praticamente innocua), il cinguettio di un uccellino, una folata di vento.
In questo scenario è valido addormentarsi dopo aver seguito idealmente con lo sguardo i piccoli segmenti irregolari che spiccano sullo sfondo rosso scuro dell’interno delle nostre palpebre chiuse, mentre danzano schizofrenici. E’ altrettanto valido dopo un po’ svegliarsi di soprassalto senza ricordarsi bene dove ci si trova.