La sala giochi
“come si fa il diavolo con le ali?”
“a me mi incula sempre, Gigi schiaccia e basta, ma lui c’ha anche culo… Sto bastardo“
“ma non c’è uno schema?…“
“ma che cazzo di schema… gioca e non rompere i coglioni!“
Ma se io schiacciavo e basta, come Gigi, il diavolo con le ali mi inculava anche a me. Danilo non era mai stato un fulmine di guerra, ma in Ghost & Goblins aveva saputo sempre dire la sua. Io meno, io ero più uno da Bubble Bobble.
Quel gioco lì, Ghost & Goblins, era un gioco nuovo e non potevi non giocarci, anche se eri più da un altro gioco.
La trasversalità era sempre stata fondamentale.
Allora ti ci dedicavi con diligenza, per non essere da meno, con gli occhi a fessura e le guance incandescenti, controllando i tuoi pixel a una spanna dallo schermo. Poi, dopo un po’, puzzavi, perché li dentro faceva un caldo infernale, e Valerio si incazzava, e finiva a sberle sul collo, perché ti devi lavare!
Se Valerio ti prendeva a coppini era anche perché forse te lo meritavi: c’è modo e modo di puzzare.
Dipende sempre dal tuo livello; se per esempio in Bubble Bobble arrivi almeno alla Stanza Dei Diamanti e puzzi, ecco, quello è già un buon modo di puzzare, potresti addirittura non correre rischi.
Ma se muori prima del Ventesimo Livello, puzzando, non hai alcuna speranza. La mannaia di Valerio dovrà smascherare e punire la tua puzzolente mediocrità.
Quella che noi chiamavamo Saletta (il nostro tutto-sommato-discreto-tentativo-di-quartiere di una Sala Giochi vera e propria) era una piccola stanza quattro metri per tre – più o meno – una scatoletta quadrata di cemento armato, con grandi finestroni di vetro, attaccata al lato sinistro dello stabile del Circolo Ricreativo Belvedere.
Il CRB era il paradiso degli anziani della zona, una piccola e laboriosa ACLI-Città-Stato che accoglieva e intratteneva frotte di ultra settantenni grazie a cinque campi da bocce regolamentari, un salone interno con tavoli per giocare a carte e due biliardi con buche, il tutto perennemente immerso in un’atmosfera serenamente rarefatta da siesta messicana postprandiale.
La Saletta, nascosta nel cuore del CRB e dedicata solo ed esclusivamente a noi ragazzi, era l’umile dimora di quattro console per i videogiochi, una delle quali, a rotazione, era sempre guasta.
Alla base della parete interna, quella che dava sul cortile del Circolo, era stata realizzata una seduta di cemento armato lunga esattamente come tutta la parete, una propaggine del muro tra lo squadrato e il botulinico, dalle proprietà altamente sociali: era luogo di meritato riposo e intime e solitarie riflessioni sul senso della vita (non c’erano smartphone), di interminabili simposi e consulenze strategiche sui videogiochi, nonché cineforum di altissimo livello e aneddotica varia a tema libero (soprattutto motori, ragazze e come farsi le canne).
Le enormi finestre alle pareti erano protette da spesse grate di ferro di color verde-cantiere, utili come le branchie a una pietra, probabilmente realizzate in una precedente vita dello stabile a me ignota e poi evidentemente conservate con l’idea di confinare con decisione la Saletta e sopratutto i suoi ospiti, mal tollerati dai Pensionati Sovrani che regnavano all’esterno.
Le finestrone erano fondamentali però per sbirciare dentro prima di entrare e ti permettevano di leggere il tuo futuro sulla faccia dei presenti – non sapevi chi sarebbe arrivato, quel pomeriggio, ma il parterre di chi c’era già ti dava immediatamente una chiarissima proiezione di quel che sarebbe potuto succedere.
Sulla base di quella visione potevi scegliere di entrare veramente e tuffarti appieno nell’intrattenimento digital-sociale più sfrenato o fingere invece “che volevi passare solo dal bancone a dare un po’ un’occhiata alle spume e se c’era uno che conoscevi“, poi saresti uscito e corso via, inorridito dalla visione di quel materiale umano che avevi fatto benissimo in tempo a riconoscere e collocare chiaramente.
Se avessi deciso di entrare saresti sceso di un livello rispetto al cortile-con-ghiaia, grazie a tre gradini di cemento rosa in fondo all’ingresso principale del CRB, e avresti varcato la soglia del Circolo Vero e Proprio (la saletta non aveva un ingresso suo), poi avresti girato subito a sinistra, una volta di fronte agli armadietti delle bocce, e avresti raggiunto la porta di plastica marrone con telaio in ferro che dava finalmente sulla Saletta, appiattendoti il più possibile per passare tra la parete e uno dei due biliardi della Zona Biliardi – rigorosamente solo per le boccette a mano.
Dovevi scegliere il momento giusto, però.
I battenti della porta erano ancorati al muro con cerniere tipo saloon di Dodge Ville e sbattachiavano avanti e indietro ad ogni transito; la cosa non aiutava di certo a passare inosservati. La porta andava religiosamente accompagnata.
La pazienza degli agonisti delle boccette aveva una curva di esaurimento decisamente corta e l’errore – magari non accompagnavi la porta o eravate in tre o quattro a dover passare, senza frazionare gli ingressi – generava un “belin, fate piano!” o peggio un “Ma poi dovete proprio continuare a rompere il belino passando di qua, voi ragazzi?“. Compromettere la qualità del pomeriggio era cosa da poco.
Per trovare la giusta motivazione per passare di là avresti potuto trovare conforto presso il bancone, un perfetto prototipo con tutto l’arsenale in bella vista: spume dai nomi mai sentiti, amari vecchi decenni, la piccola siepe verticale di pasticcini, rigogliosa di Boeri aspri e secchi come il tacco delle scarpe, tenuta su dalla sua spina dorsale di plastica nera e poi, poco prima della cassa, il desolante teatro delle brioches, una scatola di vetro vuota e unta, riempita solo dal un paio di tramezzini implosi nel loro cellophane e da qualche nostalgico ricordo di focaccia genovese.
In una delle mensole dietro al bancone avresti però sicuramente notato il Mazzo di Chiavi Leggendario del CRB, con il quale il gestore di turno avrebbe dovuto convivere per tutto il suo mandato. Per portarselo in giro lo avrebbe attaccato a un passante delle braghe, trasformandosi in un tintinnante elfo natalizio fuori stagione (tranne che a Natale, ovviamente) che scorrazza tra i campi da bocce.
Ma soprattutto, grazie al Mazzo di Chiavi Leggendario avrebbe potuto spalancare le porte dei budelli più segreti e delle gallerie più nascoste e misteriose del Circolo, accessibili solo a una élite di fortunati e solamente in momenti dell’anno specificamente scelti, in cui la presenza di persone negli spazi comuni doveva essere minima, per non destare nessuna pericolosissima curiosità.
Al Circolo c’era tutto. Se, uscito dallo stabile e raggiunto il cortile ti fossi buttato subito a destra – altri tre gradini – lasciandoti alle spalle l’ondulato di plastica verde speranza che separava la gente comune dai Giocatori di Bocce, avresti potuto addirittura raggiungere il bagno, anzi: i cessi. Li avresti frequentati solo per pochi secondi però, trattenendo il respiro e cercando di guardare il meno possibile lo spettacolo offerto, lo avresti fatto soltanto se l’alternativa a entrare lì dentro fosse stata la morte.
Sala giochi = ARCADE.
Non c’era niente di meglio.
Avevano tentato di metterci anche un calcio-balilla, ma era qualcosa di troppo sano, di meno immaginifico, di più semplice e soprattutto non faceva nessun suono, non morivi, non c’erano i trucchi e non potevi fregare Enzo Il Gestore scoprendo che Gabriele aveva la chiave della cassetta della posta identica a quella per aprire il pannello posteriore della consolle di Bubble Bobble (!!!).
Non c’era storia, il calcio-balilla era durato solo qualche mese. Lo hanno tolto dopo che Buzza, per farci vedere che era veramente forte, lo aveva spinto da seduto e con una mano sola, facendolo strisciare per terra producendo un rumore simile a quello di un vagone del treno buttato di lato sull’asfalto e spinto in avanti per qualche metro da una ruspa da cantiere.
“Belin, ma non ci giocate nemmeno, lo usate proprio solo per romperci i coglioni a noi, il calcio-balilla!“
Via il calcio-balilla.
Insert coin – “pling” – silenzio – musichina.
Questa era la sequenza che dava inizio al viaggio, alla fuga, era la nostra Delorean, ed era lì per noi ogni volta che lo volevamo – e che ce lo potevamo permettere.
In Saletta di solito ci si stava in cinque o sei. Io e Carlo, il mio migliore amico di allora, frequentavamo le scuole medie ed eravamo i più piccoli; i più grandi avevano al massimo diciotto anni. Tutti maschi.
Le ragazze in carne ed ossa erano un evento raro, più o meno come riuscire a finire Ghost & Goblins, vivevano solamente nei nostri racconti, sognati e inventati, senza alcun ritegno.
Ognuno di noi veniva in Saletta perché era l’unico posto della zona in cui trovare una concentrazione così alta di videogiochi piuttosto funzionanti (tre su quattro), ma soprattutto perché era il nostro porto, il luogo dove tornare dopo giorni, dopo avere accumulato mirabolanti esperienze di vita in giro per Sampierdarena o chissà dove. Forse il fatto che la Saletta si trovasse all’interno di quel circolo, rinchiusa, rendeva tutto un po’ più sicuro e protetto.
I pomeriggi si trascinavano lenti, un passo dopo l’altro, le solite traiettorie sui soliti sentieri, senza novità, e secondo me anche per questo era un luogo facile in cui stare.
Le Prestigiose Performance di Videoludismo facevano da perenne sottofondo a qualsiasi evento, là dentro.
Creavano un’atmosfera vagamente onirica, ma decisamente vivida, unica, un concerto fatto da suoni precisi: il rumore isterico del joystick e dei tasti di plastica, percossi come chiodi spuntati da piantare nel ferro, i suonini surreali a 8 bit da compleanno giapponese – la risposta ironica della macchina -, lo sfogo depressurizzante delle esultanze incredule (rarissime) e le bestemmie feroci accompagnate dai pugni stampati sulla console, maledicendo il dio dei videogiochi e chiunque fosse nei paraggi. Oppure il silenzio, quasi sempre imbarazzato, del non saper cosa dire o cosa fare, interrotto solo dalle voci delle consolle e dei loro richiami automatici a base di cortissimi jingle.
Ciò che di vero accadeva intorno a tutto questo era un misto di momenti davvero bassi, incastonati nello schifo più puro, grazie ad Andrea, per esempio, e ai suoi magnifici scracchi da album dei ricordi, stampati sul muro a quattro atmosfere, oppure momenti vagamente felliniani, attimi in cui percepisci un chiaro Power Up di livello – il Super Fungo di Mario Bros, per intenderci -, da ragazzo a Uomo Vissuto, come quando la Roby, quel giorno che aveva la gonna corta e si era seduta sul dorso delle mani appoggiandosi al muretto, ti aveva guardato con la testa sprofondata in mezzo alle spalle e sorridendo di sbieco ti aveva chiesto “ma cos’è che guardi?“, golosa.
Tu eri diventato un pomodoro, all’istante, e avevi vaporizzato quello sguardo innamorato il più velocemente possibile, senza tirare fuori neanche una parola, eri rimasto lì, imbarazzato e incapace.
Quello che stavi guardando, però, te lo saresti ricordato per tutta la vita.
Bello. Rende moltissimo l’atmosfera che c’era in tantissime salette dell’epoca. Un momento magico per tutto il Paese, ma soprattutto per noi, non più bambini e non ancora adolescenti.
Grazie Fuccio! Sono stati anni stupendi e decisamente particolari… 😅
Bellissimo racconto. Bravo Marco.
Grazie Manu! Big hug 🤗
Grande Marco! Sei da lacrimoni!
Esagerato! Grazie Diego!