Evoluzioni
La pressione sullo zigomo sinistro brucia.
Se si muove verso destra, anche impercettibilmente, gli fa davvero male, come se qualcuno gli conficcasse degli aghi nella guancia.
Devono essere le piccole imperfezioni del parquet che schiacciano la pelle, come frammenti di vetro. Qualcosa di minuscolo che è rimasto sul pavimento.
Li sente sulla faccia, nell’osso, sono piccoli lampi di un dolore elettrico che arriva subito fino al cervello. Poi scompaiono all’improvviso quando cambia ancora posizione, anche spostandosi di poco.
Potrebbe essere stato lui a portarli in casa poco prima, magari stasera stessa. Polvere di pietra, piccoli sassi, ghiaia, quegli impercettibili detriti che vivono sui marciapiedi e sull’asfalto. Potrebbe anche essere.
Stasera diluvia. La strada è umida e le suole delle sue scarpe sono di gomma. Le ha ancora indosso, le sente stringere il collo del piede, la tomaia come una mano che non vuole lasciarlo ancora scappare.
Comunque sia: se non si muove troppo lo riesce a sopportare, quel dolore.
E’ lì, come una telecamera rotta che è caduta per terra, di sbieco, perché chi l’aveva in mano ha perso conoscenza all’improvviso, oppure è morto.
Ma lei è rimasta accesa sul rovere, con lo zigomo premuto sul pavimento. Si direbbe che stia ancora registrando.
Mette a fuoco le cose.
Sta fissando il legno più basso della cornice della finestra, quella che da sul balcone. Infissi di noce laccato, doppi vetri, maniglia di ottone satinato.
Hanno sempre chiuso fuori tutto quello che serviva chiudere fuori. Stasera tocca a questa tempesta.
All’improvviso ritrova a pensare.
Se prendessi bene la rincorsa potrei rompere i vetri e saltare fuori, poi con due falcate punterei i piedi sulla ringhiera, esploderei in un salto verso quell’enorme ventre di balena in costruzione.
Mi staglierei nell’aria sotto la pioggia come un samurai sfuocato, magari riuscirei addirittura ad aggrapparmi a uno dei suoi piani di cemento o a una di quelle immense ruspe spente, guerrieri giganti che dormono nella tormenta. Non cadrei giù. Nossignore.
Potrei rimanere là dentro, al freddo, in quello scheletro vuoto, a lasciarmi guardare dal tempo, circondato dalle urla strazianti di questo temporale che cade mille volte, rami di salici piangenti di acqua sporca, furenti.
Resterei fermo e solo, rannicchiato sul piano di cemento. Calmo. Vuoto. Lontano abbastanza.
Un’arteria giallo elettrico si accende e squarcia il cielo, all’improvviso, ai margini del suo campo visivo. Un ruggito rauco e profondo circonda ogni cosa. Il complesso là fuori lampeggia, anche le ruspe e le impalcature, dura un battito d’occhi.
Tutto resta com’è.
E’ lì sdraiato per terra, non muove le gambe, non le sente. Non gli va di sfidare la sorte, non ancora.
Lentamente punta la mano destra per terra e stacca la faccia dal pavimento. Uno sforzo insopportabile, immane, fatto di pietre e di ferri.
Alza la testa mentre risuona ancora della fatica e guarda davanti a se. Ora mette a fuoco il divano. Bellissimo.
Lo aveva scelto con cura, sul sito, in ogni dettaglio: il contrasto cromatico di quegli elegantissimi grigi, i tessuti dalle trame molto ben bilanciate nella loro diversità al tatto e poi i cuscini rosso fuoco. Adora lasciare scorrere la mano sul tessuto dei braccioli, lentamente, una carezza che si da per riceverla indietro nello stesso gesto.
Si sorprende nel constatare che il lato sinistro della sua bocca è salito leggermente verso l’alto, forse il ricordo di un sorriso: indugia ancora un attimo e assaporando quel piccolo tepore.
Qualcuno esulta, lontano, dentro un’altra vita, e la sua concentrazione si rompe.
Ruota lentamente la testa verso il basso e fissa il parquet deciso a sfidarlo, poi spinge con la parte sinistra, con il braccio e il torace, e anche la spalla sinistra si solleva.
Una scarica elettrica lo attraversa, sale nella testa, negli occhi e brucia di vertigine, non si può gestire. Chiude gli occhi istintivamente, li strizza forte. La cosa svanisce.
Il tavolo lo aspetta invano, come ogni sera. Rimarrà spoglio, bianco, immacolato. Lo sente, lo vede con la coda dell’occhio.
La mano sinistra. Adesso tocca a lei: spinge lontano il pavimento, piega la gamba destra (ora gli va di provare) e punta il piede contro il pavimento per allontanarlo via.
Con uno scatto si alza.
Tutto si allunga, si deforma, ruota.
Si butta all’indietro con la schiena contro il muro che conosce a memoria, poi con le mani tiene ferma la testa premendo forte, i palmi sopra le orecchie e le dita tese a coprire più superficie possibile. Lentamente tutto si calma, di nuovo.
Lo stomaco è gonfio di una paura che non conosce e nella testa c’è il dubbio, arrugginito e feroce come un uncino conficcato nel cranio che lo trascina verso il basso, lo vorrebbero ancora sdraiato e dolorante.
Tre passi verso il bagno con le gambe di fango.
Ancora domande, ancora pensieri, come luci lontane nella nebbia mentre la gola brucia di nausea.
“Drrrr“.
Il cellulare vibra una volta da dentro la tasca. Non ricordava nemmeno che fosse ancora lì.
Deglutisce, perfettamente immobile. Il sudore lo incolla nell’abito, scendono sugli occhi le gocce più coraggiose.
Slow motion, un fotogramma alla volta, ruota verso sinistra, verso la porta d’ingresso, come un macigno sulla sabbia.
Dalla mensola sopra al calorifero lo fissano le chiavi: si affacciano a guardarlo da dentro la ciotola in legno d’ulivo, quella che gli aveva regalato Sara. Uno scatto di rabbia improvviso per afferrarla, duro e sconnesso, e scagliarla contro l’altra parete. Finisce tutto contro lo specchio che esplode sguaiato, spaccando il silenzio in sette pezzi diversi e irregolari. Tutto è per terra, come lui poco fa.
Sembra un puzzle da ricomporre, sembrano parti di un corpo meccanico andato in frantumi. Li fissa per un po’.
Infila le dita nella tasca della giacca, tocca appena la plastica dell’involucro del telefono con il medio, ma deve scendere ancora un po’, ancora qualche centimetro solamente, se vuole afferrarlo tra il pollice e l’indice.
Poi lo prende, lo stringe tra le dita, sembra fatto di brace.
La mano e il telefono escono dalla tasca come due assassini da una casa, poi rimangono a pensare nervosi e si muovono e ruotano, attaccati al braccio che penzola lungo il fianco come la corda di un arrampicatore alle prime armi.
Sta ancora guardando i cocci e le chiavi là per terra, a un passo dai suoi piedi, ma non sembra vederli davvero.
Deve leggere l’SMS. Deve.
Il meccanismo che muove le lancette dell’orologio della sala da pranzo fa un gran rumore, non lo aveva mai notato prima.
Fuori l’acqua continua a scrosciare inesorabile, sembra voler cancellare tutta la vita in una sera, un nuovo diluvio universale.
Il tempo di ripensare a tutto quanto daccapo e il suo braccio trascina i due assassini davanti ai suoi occhi. Li mette a fuoco.
Il display è dall’altra parte del telefono, non poteva saperlo. Il tempo di quella rotazione è infinito, sino ad allora in tutta la sua vita non c’era mai stato niente di cosi ingombrante, legato a un solo gesto. “Niente da fare.”
Vaga nei pixel dello schermo, tra i font e lo sfondo, tra il nero e la luce verde e bianca in cerca di qualcosa, di qualcos’altro, ma è tutto lì, semplicemente e davvero tutto lì.
Sono le 02:16 di martedì.
Tutta l’energia scivola via dal braccio e il telefono finisce per terra, come se l’interruttore si fosse spento e il braccio e la mano non fossero più alimentati da nulla.
Il telefono che cade per terra fa un rumore stupido e un fluido riempie la stanza. E’ immerso e sovrastato, immediatamente, e forse non riesce a respirare, non bene come prima, comunque. Denso liquido amniotico dal pavimento al soffitto.
Trascina una gamba dietro l’altra, e le braccia si aggrappano dove è possibile, per rendersi utili. Cerca la finestra, quella del terrazzo, quella di prima. Una fatica vecchia millenni di pesanti carri sospinti, di macigni grandi come case, accatastati per erigere monumenti superbi e smisurati, ad ogni costo.
La maniglia della finestra ruota con tre piccoli scatti medioevali.
Con pochi passi sistema entrambi i piedi sul cotto del terrazzo e si arrende alla pioggia che lo umilia senza ritegno.
E’ esausto come nessun altro può esserlo mai stato.
Le mani rosse stringono la ringhiera come se volessero ribaltare il mondo di fronte a lui per far cedere tutte le carte a terra e ricominciare.
L’abito che aveva in dosso non era nuovo. Gli piaceva.
La sua macchina nel parcheggio là sotto era un rettangolo di lamiera grande come una scatola di fiammiferi.
Non vedeva l’ora di entrarci.