Boy
Sono seduto due posti dopo di lui, chinato in avanti, con i gomiti sulle ginocchia. Lo sto guardando fingendo di essere sovrappensiero, non voglio che si accorga di me. Potrebbe avere una settantina d’anni, lo dico dal viso, dalle mani. In mezzo a noi due si è seduta una ragazza coi capelli neri e il viso di ceramica, naufraga, immediatamente alla deriva negli oceani del suo telefono. Lui è proprio nell’ultimo posto della banchina e alla sua sinistra c’è solo la grande T del tubo di metallo freddo, quella per appoggiarsi con il gomito, da seduti, a separarlo dalle porte automatiche.
E’ fasciato in una specie di impermeabile verde scuro e ha indosso un paio di occhiali di tartaruga. I grandi occhi castani, là dietro, sembrano due pesci rossi nella bolla, con la pancia piena.
Da sotto il trench spuntano un paio di gambe normali, dentro un paio di jeans normali, larghi e un po’ sbiaditi sulle ginocchia. Cadono comodi, con qualche piega stanca, sui mocassini marroni.
Sorride, cordiale, guardando tutto con il guizzo acceso di chi vede ogni cosa per la prima volta. Non ha in mano nulla, le sue mani sono vispe e cambiano posa in fretta.
Nessuno incrocia il suo sguardo. Nemmeno io.
Passano minuti mentre gli abbozzo addosso una vita inventata, la voce registrata scandisce le fermate e il fluido raggrumato della gente si distende, poi si sfilaccia e si dirada.
Dopo un paio di altre soste rimane il vuoto di fronte a lui: ora vede bene anche quelli seduti dall’altro lato e allora i suoi occhi iniziano a scorrere lentamente ogni persona, entusiasti.
Poi all’improvviso la sua aura si rompe e in mezzo alla sua fronte, proprio sopra al naso, si forma un piccolo solco verticale. Nello stesso istante emette un sussulto impercettibile e aggrotta leggermente le sopracciglia. Non sorride più, sta guardando un oggetto fuori posto, la balena nella neve, il dildo in mezzo all’argenteria.
Mi volto, lo faccio anche io, sempre cercando di non farmi scoprire.
Sta guardando un ragazzo seduto, da solo. Asciutto, scapigliato, indossa il sopra di una tuta e dei pantaloni strappati, ha in testa un paio di enormi cuffie blu e ondeggia lentamente, come un grattacielo giapponese in una giornata di vento. I suoi occhi sembrano chiusi, non del tutto, e io non riesco a capire se si è addormentato o invece si lascia galleggiare, cullato e nascosto dalle cuffie. Sembra avere sempre fatto parte di questa metro, non ha l’aria di qualcuno che prima o poi dovrà scendere. Il suo sorriso, bellissimo, semplice, assorto, disegnato a matita sulle labbra, gli toglie di dosso tutto il peso del corpo, un angelo custode nel suo giorno libero, il tema di un bambino che il vento gli ha strappato di mano e che ora volteggia tra i palazzi e le foglie.
L’uomo lo fissa, incredulo, poi cerca altri sguardi, cerca conforto. Io non so donarglielo.
A nessuno interessa tutto questo.
La distanza dell’incomprensione e la curiosità per una vita ignota che profuma di buono, di diverso e lontano, sapori mai assaggiati e strade mai percorse per un palato ancora pronto, e due gambe ancora forti, oppure il disagio, il fastidio per una cosa troppo diversa, per un male ormai incurabile, un virus che ha aggredito e contaminato le nuove generazioni e contro il quale ormai non c’è più niente da fare se non abbandonarsi alla rassegnazione. O piuttosto rabbia, una rabbia nascosta per una impertinenza intollerabile, per un’estetica da educare con un sonoro ceffone. Non capisco cosa sto vedendo, né tanto meno cosa sta vedendo l’uomo. Ritorno su Boy. Lui non fa una piega, è un filmato in un loop da una decina di secondi che si ripete infinite volte. Ondeggia. Sorride.
Ancora voce registrata, ancora fermate. Nella carrozza dopo la nostra qualcuno prova a suonare un flauto, accompagnato da una base scadente.
Non c’è quasi più nessuno, oramai, anche la ragazza con il telefono è scesa e siamo rimasti solo noi due sulla nostra fila di sedili, io e Uomo.
Lui adesso sembra aver cominciato ad addomesticare la presenza di Boy, fa parte dello sfondo, fa parte della scena, della vita, anche della sua. Non è una presenza indolore, è una cosa con cui fare i conti ogni volta che lo sguardo gli passa sopra, alcune volte meglio, altre con una smorfia piccola piccola.
Boy sta migliorando ad ogni attimo, invece, ora è quasi uno sbruffone perfetto nel suo equilibrio distante. Si nutre di colpi d’occhio con cui la gente lo battezza infinite volte, ogni cosa intorno a sé lo alimenta, gli dà energia: ogni sguardo che non riceve, ogni corpo che non lo tocca, ogni parola che non gli viene rivolta. Diventa un’assenza gigantesca nella vita di ciascuno.
Uomo è vivo e vegeto e continua a mangiare ogni cosa di questo suo luna park, continua a mangiare anche Boy, perché è cibo differente, perché in fondo lui saprebbe cosa farci. Poi vede anche me e annuendo mi sorride: io contraccambio. Guarda Boy di nuovo, indicandolo col mento, e poi torna su di me e gli angoli della sua bocca scendono verso il basso, mentre scuote leggermente la testa, solenne. Io lascio cadere tutto per terra, con un sorriso lontano e rientro nel mio guscio a controllare qualcosa sul cellulare.
D’istinto guardo lo schema della metro, poi scendo lasciando che le porte si chiudano dietro di me. Mi fermo e mi volto indietro a guardare il treno che riparte. Nella tasca destra trovo un vecchio scontrino che fingo di controllare e poi butto nel primo cestino che trovo, uno di quelli con il coperchio verde. Salgo le scale due gradini per volta. Sono le quattordici e diciotto e fuori fa freddo.