Smonta e porta via
Perché era ora di cambiarla, quella camera. Proprio così.
Avevamo capito come fare la camera nuova con il mobiliere: era stato efficacissimo, come sempre, e rapido. In una mezz’oretta avevamo messo bene a fuoco ogni cosa, dettagli, misure e tutto il resto.
Questi mobili qui li avremmo dismessi, se li sarebbe potuti portare via lui, come avevamo fatto per le altre stanze, anni fa. Una nostra conoscente del paese però, la Carla, ci aveva parlato della possibilità di donare – aveva usato proprio la parola “donare” – alla Caritas i mobili che non si usano più, se sono in buono stato. I nostri lo erano.
L’idea ci era piaciuta e avevo chiamato subito Patrizio, la persona che lei ci aveva indicato, di modo da organizzarci e permettergli di passare a prendere tutto.
Ci accordammo per un venerdì mattina. Del gruppo che si sarebbe occupato del ritiro sarebbe arrivato Patrizio per primo, intorno alle otto. Ci eravamo scritti e poi sentiti telefonicamente, ma non lo avevo mai visto, non avevo idea di come potesse essere fisicamente.
Me l’ero immaginato minuto, magari anche gracile. La sua voce al telefono era un tenerissimo flauto di pan che vibrava con un filo di d’aria. Sembrava sorride ad ogni frase, anche nei vocali su WhatsApp, ogni parola era uno minuscolo zuccherino, una delicatissima nuvola di suono.
Alle otto citofonò, puntualissimo. Aprii la porta e constatai che Patrizio non era affatto minuto, era un uomo ben piazzato sul metro e ottanta, indossava un gilet di raso sopra ad una t-shirt a maniche corte dai colori scuri, e un paio di jeans che ricadevano sopra degli stivali da cowboy. Aveva due occhi celesti e si muoveva con un’elegantissima armonia. Era calvo rasato e la forma della sua testa si prestava bene alla cosa. Gesticolava parecchio mentre parlava e i braccialetti tribali che aveva ai polsi trasformavano ogni sua argomentazione in un piccolo rito Voodoo, contrappuntato dai rumori di quei minuscoli sonagli cerimoniali.
I ragazzi stanno arrivando, mi aveva detto, vengono con il furgone per conto loro, e infatti di lì a qualche chiacchiera il citofono ha suonato.
Sì?, ho detto io, pigiando il bottoncino del citofono e parlando contro al muro, perentorio. Mobili!, ha risposto qualcuno dall’altra parte. Ho aperto.
Mi sarei aspettato una piccola squadra di tre o quattro persone, ma dal portone entrano rapidamente un ragazzino vestito con una tuta blu in compagnia di un omone sulla cinquantina col fisico da ex sollevatore di pesi, dai capelli ricci e scuri che indossava un paio di jeans, una polo blu e un paio di mocassini neri.
D’istinto, mentre varcano la porta d’ingresso, porgo loro la mano, saluto e sorrido attendendo i loro nomi. L’omone, che da vicino sembra Babbo Natale senza barba e costume, mi stringe la mano e butta lì un suono che non capisco, un nome dell’est, neanche troppo particolare, a dire il vero, ma proprio non lo colgo. Il ragazzo mi da la mano e se ne esce con una cosa ancora meno comprensibile. Fa niente…
Mostro loro le cose da smontare e ritirare, poi mi viene in mente che potrebbero portare dentro il furgone e propongo la cosa: c’è un accesso per il camion che permette di entrare nel giardino condominiale e che renderebbe tutto più semplice. Mentre apro il cancello butto lì una frase al ragazzino, ma lui mi risponde “io Romania, poco italiano“, annuisco e gli sorrido alzando il pollice destro. Mi volto per seguire le manovre del furgone guidato da Babbo Natale: il corridoio è poco più largo del camion, ma lui è abilissimo e in pochi istanti il furgone è parcheggiato vicino al portone di casa.
L’omone scandisce ritmi e priorità, sistemano il grande stomaco vuoto dentro dentro la pancia del furgone prendendo alcuni attrezzi e spostando da una parte alcuni cose utili per stabilizzare i mobili, dopo, e bloccano il portone con la scatola dell’avvitatore, poi entrano e iniziano i lavori.
Rapidità, efficienza, sudore, trucioli, puzza. Andrei (si sarà chiamato così Babbo Natale?) sapeva cosa fare e come farlo nel migliore dei modi. Era tutta una ginnastica di piccoli colpi, svitature, sollevamenti e spostamenti da maestro. Victor (?) cercava di destreggiarsi al meglio, non sembrava fare quella cosa da molto tempo, ma sapeva tenere il ritmo e obbediva spostando cosa più grandi di lui.
Victor sarà stato alto al massimo un metro e sessanta, non aveva diciotto anni. Era evidentemente da poco in Italia, lavorava. Non andava a scuola. Potrebbe anche essere stato il figlio di Andrei, ho pensato, ma poi non me la sono sentita di chiedere. Quando mi capitava di osservarlo cercava di sorridere, come a tirare fuori un foglio stropicciato dalla tasca.
In un paio d’ore hanno fatto tutto.
Mentre stavano andando via con le ultime cose ho notato che le ruotine di un piccolo trasportino che usavano per i pezzi più ingombranti avevano segnato il parquet, c’erano due piccoli solchi irregolari che si inseguivano zigzagando dalla camera fino all’uscita.
Ho indicato la cosa a Patrizio. Lui si è incurvato, sgonfiandosi in una tristezza quasi infantile, allora ho lasciato subito perdere cambiando discorso. Ho pensato che sarei dovuto stare attento anche io, soprattutto io, e che stavamo tutti facendo qualcosa di buono per quella casa famiglia di cui mi aveva parlato Patrizio prima, che non c’erano di mezzo soldi e che comunque, anche volendo, non ci sarebbe stato un rimedio semplice.
Poi sono andati, ci siamo salutati. Ho dato a Patrizio anche qualche corredo per la camera e qualche gioco che nostra figlia non usa più. Ci saremmo rivisti più avanti per altri giochi, altri vestiti. La camera, con tutte le altre cose, sarebbe andata a una ragazza nord africana che stava faticosamente ricostruendo la sua vita, aveva trovato un lavoro in una casa di cura, loro le avevano trovato un appartamento, ci sarebbe entrata con le sue due bimbe e lo avrebbero arredato anche con quello che abbiamo dato noi.
Tornai in sala e mi accucciai per terra, guardai le righe sul parquet, in controluce, poi feci scorrere lentamente l’indice in uno dei due minuscoli solchi. Dopo qualche secondo alzai la testa e mi specchiai sul vetro del forno: vidi il mio volto sorridere, mentre due lacrime sottili scendevano lungo gli zigomi.