Fuori
Aveva detto che sarebbe venuto fuori dalla metro. Che mi sarebbe venuto a prendere, se non avessi fatto quello che voleva. Io non lo avevo fatto.
Faceva sempre quello che diceva. Io non ho mai capito come decidesse le cose, non sono mai stata intelligente, tanto meno per lui. Ora poi non lo volevo più. Non sono stupida, mi sono diplomata, usando gli appunti dell’Elisa e studiando sui libri stenografia, di matematica. Fare i conti mi piaceva. Mi piaceva fare i bilanci e scrivere le cose come in un’azienda vera.
Con Manuel ci eravamo conosciuti alla festa del diploma di uno dei due gemelli, non ricordo quale, non li ho mai saputi distinguere. Lui era un amico della loro madre. Lo avevo notato in mezzo a tutti quanti perché aveva un giubbotto militare mezzo rovinato e lo aveva tenuto indosso tutta la sera. Per qualche strano motivo mi piaceva guardarlo, era un po’ impacciato, ma passandogli accanto avevo sentito che aveva un odore che mi piaceva. Mi erano piaciute anche le sue mani affusolate e il modo in cui teneva il bicchiere in mano, come fosse una fune da stringere stretta fra le dita per non sprofondare in qualche abisso profondo.
Anche lui mi aveva notato. Io avevo i miei jeans a vita alta, quelli che mi stava bene sui fianchi. Ci eravamo scambiati qualche sorriso, poi avevamo iniziato a chiacchierare, vicino alle tartine al salmone. Quando parlavo io lui mi ascoltava con attenzione e a me piaceva il tono della sua voce. Dopo il taglio della torta eravamo andati in terrazzo e ci eravamo baciati, poi mi aveva accompagnato a casa e avevamo fatto sesso nella sua macchina. Mi era piaciuto. Eravamo mezzi ubriachi tutti e due. C’era un piccolo dinosauro di peluches con l’espressione tutta divertita che ci osservava, ondeggiando appeso allo specchietto retrovisore. Sembrava essere rimasto lì per mesi ad aspettare di vedere i nostri due corpi sudati e mezzi nudi cercare di trovare una buona posizione sui sedili della sua macchina. Spingevamo le gambe e le braccia, e inarcavamo la schiena, contorti, travolti, sconvolti.
La domenica dopo ero andata a trovarlo al suo bar. Vederlo dietro al bancone mi era piaciuto, sembrava il capitano della nave. Ci eravamo scambiati qualche occhiata, mi aveva accompagnato sul retro e mi aveva detto grazie di essere passata e mi aveva baciata forte, col sorriso di un bimbo, ed ero tornata a casa felice.
Ero tornata al bar qualche giorno dopo e mi ero arresa alla sua insistenza, così ci eravamo messi insieme. Da quando mi ero messa con lui avevo iniziato a vederlo sempre più spesso, andavo al bar e capitava che gli dessi una mano al bancone.
Passava un sacco di gente, tutti i giorni. Mi è sempre piaciuto sorridere e guardare le persone per capire cosa potrebbero pensare o che tipo di vita fanno. Me l’immagino. E poi si parlava e a volte si rideva anche.
Poi mi ha chiesto di venire a stare con lui, con sua figlia, sopra al bar. E io l’ho fatto.
Sua figlia, Stefania, aveva otto anni, i capelli neri e un sorriso timido e lontano. Era in sovrappeso, le piacevano le caramelle, lui gliele lasciava prendere dai cartoni del bancone. Parlava poco e viveva attaccata al suo tablet.
L’appartamento era piccolo e sporco, era quello in cui lui era cresciuto con sua madre, poi lei se l’era portata via il cancro e lui era rimasto solo. Dopo una storia andata male si era dovuto tenere Stefania. Le voleva bene, a modo suo. Non ho mai capito che fine avesse fatto la mamma di Stefania.
Nella saletta c’era una vecchia stufa, piccola piccola, che non funzionava nemmeno più: era messa in un punto che sembrava riscaldare tutto anche se era spenta.
A pranzo, quando eravamo soli, parlavamo, poi facevamo sesso, poi scendevamo di nuovo al bar.
Quando c’era Stefania invece lui diventava di pietra, aveva occhi e parole e gesti solo per lei. Io diventavo il maglione che ti eri portata in spiaggia a luglio per sbaglio, una bottiglia di plastica vuota, la carta dello snack lasciata sul muretto.
Poi avevano inaugurato un grosso centro commerciale nel paese vicino e con il bar le cose avevano iniziato ad andare male. I soldi non bastavano mai, anche se io davo una mano. La sua faccia era diventata scavata e aveva sempre le occhiaie. La sera usciva, delle volte, e tornava a notte fonda. Se gli chiedevo dove fosse stato mi diceva di non rompere. Puzzava di strada e di fumo. Ogni tanto gridava e impazziva per delle sciocchezze, poi scoppiava a piangere e allora io lo consolavo e facevamo l’amore.
Una notte è tornato che sembrava ubriaco e io non ho fatto domande. Lui mi ha voluto anche se a me non andava, poi ho pianto io, in bagno da sola. Il mattino dopo ci siamo alzati come se niente fosse, forse era solo un momento, cose di passaggio. Lo avrei voluto tanto.
Poi un giorno, per un compleanno di Stefania, abbiamo fatto la festa giù al bar invitando qualche sua amichetta. Ma sulla torta non c’era la scritta che lui mi aveva chiesto di far mettere e allora è uscito di testa e ha gridato come un assassino con anche tutte le bimbe e Stefania, poi mi ha schiaffeggiato e mi ha detto vattene via. I bambini si sono spaventati e qualcuno ha iniziato a piangere, anche Stefania piangeva. Allora ho dato a tutti delle caramelle e abbiamo fatto un gioco, poi abbiamo aperto i regali. Io non riuscivo quasi a parlare, la mia guancia destra era viola, pulsava e bruciava, cercavo di tenerci sopra i capelli così le bimbe non la vedevano.
Non ce l’ho fatta ad andare via. Dentro ai suoi occhi non c’era quasi più lui, c’era questa uomo che usciva la sera e tornava di notte, c’era uno spettro di sale che stava bruciando le nostre vite e rideva e scalciava e correva senza controllo, bestemmiando, senza alcun motivo. Non ce l’ho fatta ad andare via.
Sono passati mesi. Tutto e rimasto uguale.
Giovedì, dopo che i servizi sociali si cono presi Stefania, gli ho detto che sarei tornata a casa mia, ma lui mi ha preso per i capelli e ha gridato sulla mia faccia con le lacrime agli occhi e mi ha detto di non provarci e mi ha fatto vedere il suo pugno stretto come quando ci teneva dentro il bicchiere, alla festa dei gemelli, mi ha detto che dovevo rimanere con lui, che se non lo facevo mi avrebbe aspettato fuori dalla mia fermata. Io non l’ho fatto.
Non sono stupida, mi sono diplomata, usando gli appunti dell’Elisa e studiando sui libri stenografia, di matematica. Fare i conti mi piaceva. Mi piaceva fare i bilanci e scrivere le cose come in un’azienda vera e tornare a casa, come in una famiglia vera.