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Il videoludismo come ricerca di se stessi

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I videogiochi sono bellissimi.
E’ una cosa che ho stabilito quando ero piccolo, nel momento in cui ho avuto a che fare con loro per la prima volta.

La prima cosa-elettronica-che-si-attaccava-al-televisore con la quale giocai fu una piccola consolle rossa, un magnifico regalo da parte di lontani cugini.

Aveva due piccoli controller con il filo, ci si poteva giocare in due contemporaneamente, non erano previste cartucce da inserire, né CD o BluRay, né floppy disc; dentro la consolle c’erano alcuni videogames già preinstallati.
I giochi erano tutti in bianco e nero, anzi: c’erano delle piccole robine bianche, trattini e quadretti, che si muovevano sullo schermo nero-vuoto-cosmico del televisore, simulando alcuni giochi sportivi che avevano a che far con una pallina, tipo il tennis, la pelota o lo squash.
I suoni erano tutta una serie di rumoretti a otto bit, percussivi, cortissimi e squillanti, come il rintocco mono di un metronomo digitale.

Ne ho un ricordo stupendo, ci abbiamo giocato tanto, con mio papà e con i miei amici di allora. Dopo averci giocato la si smontava e si metteva via tutto. Abitudini medioevali ormai lontane secoli – quelle di mettere vie le consolle dopo averci giocato.

In quegli anni e da lì in avanti il divertimento digitale cominciò a funzionare davvero, tanto che alle consolle furono affiancati altri oggetti del genere, come gli scacciapensieri o i primi orologi digitali da polso. Poi di lì a poco le consolle arcade, quelle grandi a cui si giocava standoci in piedi davanti, divennero le nostri migliori amiche e, ipnotizzandoci le facce con le loro luci azzurro-neon, ci costrinsero a passare interi pomeriggi dentro bar, bocciofile e sale giochi.

Era però un’immersione controllata, una breve apnea che ti consentiva di visitare in maniera sicura e consapevole il magico mondo del software dedicato all’intrattenimento. C’era fortunatamente ancora tanta strada nelle nostre giornate, c’erano tante corse, c’era la bicicletta e i parchetti in cui trovarsi a giocare. Poi lentamente le consolle da casa diventarono sempre più sofisticate, diventarono PC fatti apposta per giocare e per noi ragazzi di città tutto lentamente cambiò.

Questi fantastici oggetti futuristici furono l’alba di una nuova era di entusiasmo digitale che ci avrebbe travolto e sospinto per i successivi trent’anni. Adesso più che mai ci troviamo sulla cresta di un’onda visionaria che si iniziò a gonfiare proprio verso la fine degli anni ottanta, un’onda che per di più fu in grado di mantenere nel tempo ogni promessa fatta. Le fantasie suggerite da tutti questi nuovi supporti ci fecero immaginare un futuro fantascientifico e tutto ciò alimentò le nostre visioni da bambini.

Siamo stati una generazione che trovava ancora nella propria fantasia la maggior parte delle risposte a tutti i sogni ad occhi aperti che faceva, di certo queste risposte non le si poteva trovare nella tecnologia che avevamo di fronte. Per quello ci sarebbero voluti ancora un po’ di anni.

Se da un lato eravamo pronti a sognare, dall’altro eravamo pronti ad abboccare con entusiasmo a questa magnifica esca, e lo abbiamo fatto.
Di lì a poco le gigantesche possibilità che l’elettronica dava all’industria dell’intrattenimento avrebbero nutrito la nostra immaginazione con il cucchiaio grosso, aggiungendo a questa ricetta ingredienti come Blade Runner, E.T., Tron, War Games o Ritorno Al Futuro, tutti film che proponevano la tecnologia come elemento cardine di qualsiasi futuro si potesse immaginare.

E proprio per questo il futuro a un certo punto è stato deviato, un po’ come quando Biff ruba il Grande Almanacco Sportivo e lo consegna a se stesso, tornando nel 1955 [cit]. Questo processo nell’ultima decina d’anni è stato anche vitaminizzato e velocizzato nella crescita da una maggiore semplicità e raidità via via sempre più efficaci nel far circolare le informazioni, gestendo e soddisfacendo a dovere le nostre necessità e i nostri gusti – leggi social networks e affini.

Questo è un discorso molto più ampio e che non riguarda solamente la diffusione dei videogiochi, ma i videogiochi sono qualcosa che si è prestato e si presta alla perfezione ad essere veicolato attraverso questi media. E fu così che giocare-con-i-videogiochi è diventato uno stile di vita, una fonte di reddito, uno sport che riempie le arene con decine di migliaia di appassionati, ma anche una patologia.

Il valore commerciale di questa forma di intrattenimento ha raggiunto proporzioni gargantuesche. I numeri sono enormi e il loro ordine di grandezza è paragonabile al fatturato di aziende come Google o Microsoft, tanto per fare un paio di nomi.
I videogiochi migliori oggi, quelli più diffusi, hanno costi di realizzazione che raggiungono serenamente il quarto di milione di dollari e, di contro, le case di produzione spesso rientrano del costo in un paio di giorni dall’uscita del titolo (dico: un paio di giorni!).

La diffusione e la permeabilità dei prodotti di questo mercato lo hanno trasformato in un pozzo di soldi, continuamente perfettibile ed in spasmodica crescita.
La punta della matita continua ad essere temperata sempre meglio, i tratti del disegno e i dettagli sulla tela continuano a migliorare e, se prima i videogiochi erano il prodotto di un paio di nerds o poco più, oggi sono invece il risultato di anni di lavoro di menti eccelse, programmatori, certo, ma anche e soprattutto sceneggiatori, musicisti, fotografi, designers e psicologi.

Sì, psicologi.

Ed è questa l’informazione che mi ha incuriosito di più, anche se invece, a pensarci bene, è un qualcosa di assolutamente ovvio.

Il mercato dei videogiochi si rivolge sopratutto ai teenagers, cioè chi si trova in una fase della vita in cui le parole d’ordine sono soprattutto disagio, ribellione, fuga e rifiuto. L’adolescenza è un’età in cui si è praticamente fatti a posta per accogliere l’opportunità che i videogiochi offrono, cioè fuggire da tutto quanto per rifugiarsi in qualche altro luogo o in qualche altra persona.

Tutto questo non riguarda solo gli adolescenti, però: un mio ex collega – quarant’anni suonati – per svariate ore al giorno diventava un soldato digitale, con fucile mitragliatore e tutto il resto e dall’ora di cena fino alle prime ore del mattino incontrava altri soldati digitali di tutto il mondo e li ammazzava mille volte e conquistava l’avamposto e faceva esplodere il carro armato e personalizzava il fucile mitragliatore con il suo nome e ogni volta che entrava in una room di gioco veniva salutato da tutti come un cyber-veterano, con rispetto e ammirazione.
In più raccontare tutto questo lo rendeva incredibilmente felice, si eccitava, un po’ come se affrancasse se stesso attraverso il suo ego digitale. E’ un transfer molto efficace ed è un misto tra divertimento, dipendenza e alienazione.

L’American Psychiatric Association (APA) ha chiamato questa patologia Game Addiction, definendo anche una serie di criteri per individuarla, i GAS, cioè Game Addiction Scale. In sostanza ci si può trovare a dover fare i conti con una sorta di nuova tossicodipendenza che mette al centro della tua vita i videogiochi e quando giochi: giochi, quando non giochi pensi a come dovrai giocare non appena ti sarà possibile farlo di nuovo.

Guardando la cosa da tutt’altro punto di vista riconosco invece che il mondo del gaming sia pesantemente intriso di cultura, se non altro da parte di chi i giochi li realizza. Al di là delle competenze tecniche in senso stretto e quelle legate maggiormente alla comunicazione, c’è bisogno anche di tanta passione, di ricerca e di una cura maniacale del dettaglio, perché è ciò che più o meno consciamente il mercato richiede.

In alcuni videogiochi c’è tutta una ricerca quasi filologica legata alla storia delle terre e delle culture coinvolte nella narrazione, con relativi monumenti, opere d’arte, armi con fattezze e suoni fedelissimi alla realtà, per non parlare dei personaggi e dell’intelligenza artificiale in grado di orchestrare in maniera decisamente verisimile un contesto complesso come un paese con i suoi abitanti o una comunità – virtuali ovviamente.

Tutti questi dettagli consentono di vivere un’esperienza quasi reale, di potersi immergere con i propri gusti e il proprio carattere in un mondo da personalizzare a piacere, attraverso abiti, macchine, armi, case e scelte che impattano in maniera tangibile sull’evoluzione del gioco e soprattutto sulle percezioni e sensazioni di chi lo gioca.
Ed allora, per alcuni, questa è la nuova strada, il nuovo parchetto, la nuova bicicletta.

Nelle mie ormai sempre più rare immersioni nel magico mondo, mi è capitato spesso di imbattermi on-line in ragazzi che si incontravano nel gioco anche solo per parlare, anche senza giocare. Li trovavi – trovavi i loro personaggi e quindi loro – lì fermi di fronte a un tramonto, a una valle con un bellissimo lago blu, a cavallo di uno magnifico appaloosa pezzato, semplicemente a fare quattro chiacchiere.
Altri ragazzi mi hanno confidato tutto di loro, ovviamente senza avermi mai visto ne conosciuto prima, compreso il luogo in cui si trovavano in quel momento nella realtà vera, quindi il loro indirizzo di casa, per poi fornirmi un numero di telefono – così avrei potuto mandare a loro il mio e mi sarei potuto iscrivere al loro gruppo whatsapp.

E’ evidente che si tratta di un contesto in cui immergersi è davvero un piacere, un piacere così reale e avvolgente che ci sono persone che lo preferiscono alla realtà, magari anche solo per qualche ora al giorno, anche perché, a conti fatti, ne è la copia più semplice ed entusiasmante, ripulita da ogni tipo di responsabilità nei confronti di se stessi, degli altri e delle cose in generale. Si assapora una libertà unica, anche se finta. E soprattutto, anche se finta, risulta così ben confezionata da diventare assolutamente appagante.

Ma fino a che punto saremo in grado di confinare tutto questo all’interno del mero intrattenimento, visti anche gli enormi progressi che di anno in anno la tecnologia mette in campo nel settore? Oppure: arriveremo davvero al punto di poter scegliere di vivere biologicamente nel mondo reale, ma da un punto di vista neuronale vivere invece all’interno di una realtà virtuale in cui accade esattamente solo ciò che ci fa stare meglio?

I videogiochi sono bellissimi e lo saranno sempre di più, ma di conseguenza credo anche che la cultura di cui avremo bisogno per poter gestire consapevolmente questi stimoli dovrà essere sempre più profonda e solida. Il massimo dell’ironia sarebbe che prima o poi, in un domani più o meno vicino, questa cultura ce la potessimo costruire frequentando gli atenei migliori al mondo, stando comodamente seduti a casa propria, immersi nella realtà virtuale fino al collo, attraverso un visore 3D che ci permetterà di scegliere l’aspetto del professore, i colori dell’aula e il profumo dei libri di testo. Questo sarebbe ironico sul serio.

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