Una serata coraggiosa
Questa sera sono uscito dall’ufficio con qualcosa di diverso addosso, un’energia brillante anche se appannata dalla stanchezza, e curiosa.
Mi è già successo un paio di volte questo mese, ma non ho mai voluto prenderla sul serio.
Questa sera no, questa sera la cullo per bene, voglio fare attenzione a non lasciarla svanire. Esco dalla metro e cammino verso il parcheggio.
Ora mi sembra di essermi allineato al suo ronzio. L’ho accolta, senza aprirla, senza farle domande, senza voler capire.
Continuo a camminare, dando qualche bracciata ogni tanto, giusto per essere sicuro di riuscire a galleggiare sui pensieri, sui miei pensieri e su quelli di questo fiume nomade di aperigente che rimescola nella cagnara le visioni di gloria migliori, ma io mi concentro: mi sembra quasi di uscirne incontaminato.
Arrivo alla macchina in un paio di telefonate ancora, fatte senza troppo energia, per non vanificare tutto. Apro la portiera, accomodo lo zaino sul sedile posteriore, mi lascio cadere al posto di guida e mi allaccio la cintura.
Rinvengo, alzando la testa, riemergo per un istante dai flutti degli ultimi fumi di questa giornata e, guardandomi intorno, mi rendo conto che è quasi notte.
Poi lancio in avanti uno sguardo, stremato, ma pieno di fiducia: guardo verso sud; mi sembra di intravedere là infondo la sagoma di casa. Il mio paese è un piccolissimo profilo nero tagliato via dall’orizzonte, basta guardare verso Genova e in lontananza lo si intuisce, timido, proprio nel punto esatto in cui va a cadere il sole.
Sotto sotto, da qualche parte, mi ha preso una gran voglia di correre. Forse ho voglia di scrollarmi via la giornata di dosso.
Correre mi piacerebbe, ma in questo momento non posso farlo. Magari la voglia me l’ha attaccata la ragazza con la tuta rosa fluo che ho visto di sfuggita poco fa, correva sul tapis roulant della palestra-vetrina, tutta intenta a far rimbalzare a destra e a sinistra i suoi capelli, raccolti in quel morbido metronomo di treccia.
Io qui posso far rimbalzare i pensieri, posso far rimbalzare le abitudini, finché non cadono per terra e si frantumano per lasciare il posto a qualcos’altro, forse.
La sensazione che ho addosso sembra volermi dire proprio questo.
Cambiare costa fatica, ma questa sera voglio usare quel qualcosa-di-diverso per accendere una scintilla di coraggio.
A questo punto ho bisogno solo di un piccolo aiuto per fare il primo passo. Allora abbasso un po’ il finestrino e lascio entrare uno schiaffo di aria gelida.
L’aria funziona sempre, ora sono pronto.
Scelgo di lavorare sul piccolo, non sono così coraggioso; decido di non ascoltare quello che ascolto sempre – un podcast, la mia musica, Pocket, la radio –
Sto scorrendo la lista dei prima o poi di Spotify e indugio su Bela Bartok.
Lo conosco poco, anche se in realtà, quando prendevo lezioni di piano al liceo, l’ho addirittura suonicchiato.
Ricordo che mi avevano colpito le dissonanze. Fantastiche! Un pugno nei reni tirato con le nocche, nel bel mezzo di un abbraccio affettuoso.
Faccio partire “questo è Bela Bartok“. Punto il muso e parto.
Difficilissimo. Acidità allo stato puro. Ho voluto resistere al disagio, al bisogno di tornare sulla mia poltrona nella speranza che stringere i denti mi avrebbe portato una nuova poltrona.
Funziona: quella musica cambia le cose.
Lui – Bela – non curante del fatto che stessi rientrando a casa dopo una giornata di lavoro, mi ha preso per un orecchio e mi ha trascinato dove ha voluto.
La donna obesa seduta a fianco a me sul sedile del passeggero mi ha afferrato il braccio, ha piantato i suoi occhi nei miei e mi ha detto qualcosa che non ho capito, ma che suonava tanto come “fermati per cena, c’è lo stufato!”.
Era sulla sessantina, indossava un vestito chiaro con diversi inserti colorati, buttati lì come una manciata di condimenti, i capelli collosi e grigi si intuivano appena, schiacciati sotto un lungo cappellone sgargiante.
Il sapore di quella frase era agrodolce, un’affettuosa minaccia. Non potevo non assecondarla: avrei fatto tardi.
Sorpasso un camion.
Non riuscivo a vedere bene la strada dietro di me, perché sui sedili posteriori c’erano un paio di capre assieme a un gruppo di bambini che giocavano con una palla di stracci. In piedi, nel baule, tre vecchi pastori dalla pelle di cuoio si gridavano in faccia chissà quali opinioni, sporchi e feroci.
Qualcuno aveva lasciato un paio di lunghi coltelli affianco al mio zaino dell’ufficio, si era rovinato leggermente su un lato, cazzo!
Poi sono uscito dall’autostrada e ho perso il lento riferimento di tutti i suoi profili nitidi e lunghi e delle sue geometrie lineari e l’effetto è divampato, nutrito dalla vista degli alberi e dei campi e delle rogge, là fuori, che dominano la prospettiva, dalla natura e dalla mia euforica stanchezza; il nome di ogni oggetto e ogni mio pensiero arrivavano ormai da un’altra prospettiva. Avevo dei nuovi bellissimi assi cartesiani con cui misurare le cose, con cui fantasticare.
Ora. Da quel giorno mi sono ripromesso di rifarlo. Di farlo il più spesso possibile.
Sarà stata sicuramente una somma di cose, quel risultato, ma tutto parte sempre da un “massì dai“.
Cambiare è doloroso, va detto. La vita è fatta di abitudini comode fatte apposta per camminare dritti, con l’assoluta consapevolezza che quello sia il modo migliore per camminare.
Mi sono reso conto che in effetti mi ha fatto da sgabello una cosa piccola, quella sera, però io mi ci sono arrampicato sopra, ho accettato di salirci e ho scavalcato il mio muretto, sono ricaduto dall’altra parte con tutta un altra prospettiva, ed ho camminato per un po’, in un altro modo.
Non è poco. Mi ha sorpreso.
Il fisico diventa più tonico per lo sforzo, l’esperienza dell’ostacolo ti trasforma in un atleta, quando cadi di là molleggiando sulle ginocchia il cervello gira veloce, perché non sa nulla di dove lo hai portato e vuole imparare.
Fossero anche calci nel culo – perché a volte lo sono – sono i *tuoi* calci nel culo, sul tuo nuovo culo, intanto.
E poi i samurai dicevano “benedici il tuo nemico, perché è il tuo miglior maestro” ed allora quale opportunità più evidente per diventare un te stesso ulteriore? Non migliore, non peggiore: più ricco. Poi cosa ci fai coi soldi, dopo vedi…
E’ nelle piccole cose che mi voglio allenare, con costanza, curioso.
La vita spesso i cambiamenti li impone, oltre che proporli, e trovarsi già un po’ allenati a piegare le gambe forse può dare una mano a cadere meglio dall’altra parte.
Complimenti Marco!!! Mi è’ piaciuto un sacco!!
Ciao Chiara, ma grazie davvero!! Un grande abbraccio.
Bravo Marco,hai portato anche me per cinque minuti su quella macchina. Bel giro.Grazie.
Felicissimo di averlo fatto! Un caro saluto Andre!
Complimenti Marco molto bello il tuo modo di scrivere.
Ciao Laura, grazie per il tempo e per i complimenti. Mi fa davvero piacere!